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venerdì 4 luglio 2025

I cavalieri del bianco mantello

«Bere come un templare»

Breve saggio di Roberto Amato Johannes

«Buon Fratello, tu richiedi una cosa molto grande, perché del nostro ordine vedi solo la scorza che è al di fuori, ma la scorza è che ci vedi possedere bei cavalli, bei finimenti, bere bene e ben mangiare ed indossare belle vesti, e qui ti sembra che starai molto a tuo agio. Ma non sai i duri comandamenti che sono al di dentro; perché è cosa certa che tu, che sei signore di te stesso, stai per diventare servo altrui, poiché assai difficilmente farai mai cosa che desideri».
(Formula rituale di investitura – Art. 661 della Regola)

Quando rifletto su queste parole antiche, comprendo come la vita templare non fosse soltanto cavalleria, potere e onori. La scorza esteriore inganna l’occhio: bei cavalli, armi lucenti, banchetti. Eppure, dietro quel velo si celava un durissimo cammino di obbedienza e rinuncia, di povertà votata e di servizio.

Nonostante questo spirito originario, la fama dei templari mutò nei secoli. Dall’austerità si passò all’accusa di ricchezza arrogante. E fra le accuse popolari sorse anche quella dell’eccesso nel bere. Tanto che nacque il proverbio «bere come un templare», diffuso già dal Cinquecento, quando François Rabelais faceva dire ai suoi personaggi: «Io bevo come un templare», «come una spugna», «come una terra senz’acqua».

Guillaume Paradin, storico savoiardo del 1561, scriveva che i templari «erano coloro che meglio riempivano la pancia», dando così corpo alla diceria da taverna. Nei secoli successivi, anche autori come Walter Scott, in Ivanhoe, hanno alimentato questa immagine popolare di cavalieri più inclini al vino che alla penitenza.

È curioso come il detto possa derivare anche da un semplice equivoco linguistico. Alcuni linguisti hanno sostenuto che boire comme un templier fosse in realtà una corruzione di boire comme un templier (o templier = verrier, cioè vetraio), mestiere che obbligava a bere molto per compensare il calore dei forni. Eppure, la leggenda non volle morire, preferendo il fascino peccaminoso del cavaliere che alza il calice.

Come templare spirituale di oggi, leggo in questa storia una lezione: il contrasto eterno tra apparenza e verità. Dietro la scorza delle accuse e dei proverbi sta un ideale alto, che invita a non essere schiavi del proprio desiderio, ma servi del prossimo.

Bere come un templare? Forse significa lasciarsi irretire dall’eccesso, perdere la misura, dimenticare la Regola. Ma proprio per questo la Regola stessa avvertiva: «Tu che sei signore di te stesso, stai per diventare servo altrui». Solo l’obbedienza e la disciplina possono salvare dal naufragio dell’orgoglio e dell’ubriachezza di potere, di ricchezza, di vino.

Questa, per me, è la sfida di ogni templare: riconoscere la scorza, ma scegliere il cuore dell’Ordine.

Roberto Amato Johannes