✠ L’ecumenismo nasce a Gerusalemme con l’Antico Ordine del Tempio ✠
Breve saggio di Roberto Amato Johannes
Come Roberto Amato Johannes, voglio condividere con voi alcune riflessioni su un tema che considero essenziale: l’origine dell’ecumenismo, un percorso di dialogo e di collaborazione tra le fedi che, per me, affonda le sue radici più profonde a Gerusalemme, proprio con l’Antico Ordine del Tempio.
Ecumenismo è un termine moderno, è vero. Deriva dal greco oikoumenē, “la terra abitata”, e indica l’aspirazione a unire i cristiani di diverse confessioni e, più in generale, le religioni del mondo. Ma io credo che il suo seme più antico sia nato tra le mura di Gerusalemme, crocevia di popoli, di lingue, di fedi.
Nella mia meditazione spirituale, spesso torno al Salmo che dice:
«Pregate per la pace di Gerusalemme: vivano sicuri quelli che ti amano» (Salmo 122,6).
Questa preghiera, che risuona nei secoli, mi sembra la voce più pura dell’ecumenismo nascente: chiedere pace per la Città Santa, dimora di Dio e degli uomini, patria contesa e amata da ebrei, cristiani e musulmani.
Fu in questo luogo sacro e ferito che nacque l’Ordine del Tempio. Fondato nel 1119 con il compito di proteggere i pellegrini e custodire i Luoghi Santi, l’Ordine non fu solo una milizia armata. Fu anche un crocevia di culture, una fraternità che si trovò – per forza di cose – a dialogare con mondi diversi.
Nei miei studi e riflessioni, considero centrale il rapporto con i turcopoli. Erano cavalieri leggeri, guide, esploratori di origini miste: greci, siriani, arabi, persino musulmani convertiti o alleati. Con loro i Templari condividevano strategie militari, informazioni, percorsi. Era una necessità bellica, certo, ma anche una forma di riconoscimento reciproco.
I Turcopoli erano una cavalleria leggera, composta prevalentemente da arcieri, inquadrata negli eserciti crociati in Terra Santa. La loro origine risaliva ai Bizantini, che usarono per primi i “Tourkopoloi” – letteralmente “figli di Turchi” – probabilmente schiavi o discendenti di prigionieri selgiuchidi. Quando le armate crociate, basate su cavalleria pesante e balestrieri appiedati, dovettero fronteggiare la tattica turca dello “colpisci e fuggi” (scoccavano frecce al galoppo, fuggivano e tornavano a colpire), reclutarono questi reparti ausiliari equipaggiati come il nemico – arco, giavellotti, mazza ferrata – e abili in pattugliamenti, ricognizioni e azioni fulminee. Non è chiaro se fossero di etnia turca o musulmani convertiti, ma ciò che li caratterizzava era l’armamento e la tattica: cavalli rapidi di piccole dimensioni su cui scoccare frecce al galoppo. In Terra Santa furono i Templari i primi a integrarli nelle proprie fila, poi seguirono gli Ospitalieri e i regni crociati di Palestina, che nelle loro stesse Regole dedicarono capitoli al comando di questi reparti, affidato al Turcopoliere.
In quei volti segnati dal sole di Palestina, in quelle mani che stringevano le redini e le spade insieme ai Templari, io vedo un primo, fragile ma reale esempio di collaborazione interreligiosa. Un’alleanza precaria, ma significativa.
Nella Regola templare, lo Statuto di Troyes del 1129, si legge di obbedienza, di povertà, di difesa dei deboli. Ma soprattutto si riconosce la necessità di giustizia e carità. È la carità a muovere l’ecumenismo:
«Ora dunque rimangono queste tre cose: fede, speranza e carità; ma la più grande di esse è la carità» (1 Corinzi 13,13).
I Templari, pur in guerra, dovevano vivere la carità. La Regola li obbligava a non insultare l’avversario, a non vantarsi, a rispettare le chiese orientali. Erano tenuti a confessarsi, a pregare insieme, a offrire aiuto ai fratelli, anche se di lingua o rito diverso.
Quando penso ai turcopoli, vedo una fraternità di confine. Non erano solo mercenari: erano l’incarnazione di un legame possibile tra culture. Cristiani e musulmani che condividevano la fatica del viaggio, la strategia della difesa, la necessità di sopravvivere. Persone che imparavano a fidarsi almeno un poco l’uno dell’altro.
Gli storici – penso a Giles Constable o a Malcolm Barber – ci ricordano che il mondo crociato non era un blocco monolitico. Era un mosaico. Il Regno di Gerusalemme stesso aveva funzionari arabi, traduttori siriaci, contadini musulmani che pagavano le tasse ai signori franchi, accordi con emirati locali.
Non voglio idealizzare tutto questo. Era un tempo duro, pieno di violenze. Ma proprio lì, in quel conflitto acceso, vedo nascere il bisogno di trovare un terreno comune. Di capire l’altro. Di mediare.
Per me, l’ecumenismo nasce lì:
• quando il cavaliere franco si affida alla guida beduina per attraversare il deserto;
• quando il templare chiede informazioni al mercante musulmano;
• quando le due parti firmano tregue e rispettano gli scambi di ostaggi;
• quando riconoscono la sacralità di Gerusalemme per tutti.
Nei testi sacri, il Signore ci comanda di amare il prossimo come noi stessi (Levitico 19,18; Matteo 22,39). Ma chi è il prossimo? Gesù lo spiega con la parabola del Samaritano (Luca 10,25-37), uno straniero, considerato eretico, che si fa prossimo con la compassione.
Io credo che i Templari – pur con tutti i loro limiti – abbiano sperimentato questa verità. Combattenti, ma anche protettori di pellegrini di ogni provenienza. Guerrieri, ma anche custodi di un dialogo forzato ma reale.
In fondo, come dice San Paolo:
«Egli è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione» (Efesini 2,14).
Questa è la speranza che porto nel cuore. Che anche oggi, in un mondo diviso da nuovi muri, possiamo imparare da quel fragile ecumenismo nato a Gerusalemme. Che possiamo riconoscere nell’altro – anche nel nemico di ieri – un fratello.
Questa, credo, è l’eredità più vera dell’Antico Ordine del Tempio. Non solo le pietre delle fortezze o i sigilli impressi nella cera, ma la memoria di un’umanità che, pur nel conflitto, ha saputo tendere la mano.
È il messaggio che voglio lasciarvi. Un invito alla pace, al rispetto, al riconoscimento dell’altro. Perché, come dice il Salmo:
«Quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!» (Salmo 133,1).
Che questa antica sapienza ci guidi ancora oggi, a Gerusalemme e in ogni angolo del mondo.
✠ Roberto Amato Johannes ✠ Custode della Tradizione dell’Antico Tempio#